Isabella Morra
La triste storia di un «inferno solitario e strano»
Rimatrice del XVI secolo, nata a Favale (antica Valsinni, in Basilicata) da Luisa Brancaccio e il barone Giovanni Michele di Morra intorno al 1520. Cresciuta nel castello di Favale in una sorta d'isolamento forzato dopo l'esilio in Francia dell'amato padre alla corte di Francesco I e quello del fratello Scipione, con i quali la Morra aveva in comune l'amore per la poesia. Nelle rime della Baronessa di Favano riecheggia il sentimento amaro e dolente dei giorni di solitudine al castello, nei quali la giovane poetessa scriveva piangendo per la sua triste sorte, con la disperazione di non poter rivedere il padre: «I fieri assalti di crudel Fortuna / scrivo piangendo, e la mia verde etate;», e ancora «D’un alto monte onde si scorge il mare / miro sovente io, tua figlia Isabella, / s’alcun legno spalmato in quello appare, / che di te, padre, a me doni novella.»
Quello dell'antica Valsinni era un un contesto politico macchiato da gravi lacerazioni e lotte di potere tra spagnoli e nobili residenti alleati ai francesi, tra i quali la famiglia del barone Morra; inoltre la situazione familiare era molto delicata, segnata dal un lato dalla mancanza del capofamiglia e dall'altro dalla grave depressione della madre per il declino della famiglia, «me che ’n sì vili ed orride contrate / spendo il mio tempo senza loda alcuna.», l'ultimo nato della famiglia, Camillo, era nato addirittura dopo la partenza del barone, lasciando sola e sconsolata la moglie gravida.
Benedetto Croce, nel 1928, avvalendosi di un testo di Marco Antonio, figlio di Camillo, del 1629 intitolato Familiae nobilissimae de Morra historia, fece una ricostruzione della tragedia che colpì la sventurata poetessa quando aveva appena 25 anni, facendo risalire la morte della poetessa tra la fine del 1545 e il 1546:
Poco lungi da Favale, nel castello di Bollita, si recava di frequente lo spagnuolo don Diego de Castro, che aveva ricevuto quel feudo come dote di sua moglie Antonia Caracciolo, la quale dimorava colà mentr’egli sosteneva il carico di regio castellano della rocca di Taranto.
• Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro, in Benedetto Croce. 1
Diego Sandoval de Castro era un rimatore di 36 anni, membro della prestigiosa Accademia degli Umidi di Firenze, con un'apparente inclinazione per le donne; dalla ricostruzione di Croce pare che fu lui ad iniziare una corrispondenza segreta ritenuta indecorosa con la giovanissima poetessa, servendosi del precettore di lei e del nome di sua moglie. La Morra era già in lite con i fratelli perché aveva assunto il ruolo di dama di compagnia di Felicia Sanseverino e l'aveva seguita fino a Matera dopo il matrimonio con Antonio Orsini, affermando così la sua volontà d'emancipazione dalla famiglia. Purtroppo le lettere furono intercettate dai fratelli, che pugnalarono a morte la povera Isabella e il precettore colpevole del tradimento. Mentre gli assassini ripararono in Francia, del Castro si diede immediatamente alla fuga, ma invano, perché pochissimo tempo dopo i fratelli Morra lo sorpresero nel bosco di Noia (odierna Noepoli) e lo assassinarono a colpi d'archibugio, vendicando così l'offesa arrecata all'onore della famiglia, per poi riparare definitivamente in Francia con l'aiuto del fratello Scipione e del padre.
La morte della “disonorata” non suscitò lo stesso scalpore dell'assassinio di de Castro: all'epoca si riteneva accettabile lavare con il sangue delitti all'onore, soprattutto se in seno alla famiglia e compiuti da soggetti di sesso femminile. Gli scritti di Isabella di Morra furono scoperti dagli ufficiali del viceré di Napoli e messi agli atti, solo durante il processo per l'assassinio di Diego Sandoval de Castro, e la moglie della vittima dichiarò che il marito era morto perché aveva corteggiato una delle sorelle del barone di Favale, perché il feudo di Favale era stato restituito alla famiglia Morra e adesso era stato ereditato dal primogenito Marcantonio, promesso sposo di Verdella Capece Galeota. Secondo i documenti ufficiali il matrimonio ebbe luogo il 21 maggio 1546 e pare che quindi la scoperta della corrispondenza segreta sia avvenuta in occasione del ritorno di Isabella al castello di Valsinni, in occasione del matrimonio del fratello.
1Croce, Benedetto, Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro, Palermo : Sellerio, 1983.
Isabella Morra: Opere in catalogo
Sommario
- • SONETTI
- I. I fieri assalti di crudel Fortuna
- II. Sacra Giunone, se i volgari amori
- III. D’un alto monte onde si scorge il mare
- IV. Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato
- V. Non sol il ciel vi fu largo e cortese
- VI. Fortuna che sollevi in alto stato
- VII. Ecco ch’una altra volta, o valle inferna
- VIII. Torbido Siri, del mio mal superbo
- IX. Se a la propinqua speme nuovo impaccio
- X. Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
- • CANZONI
- I. Poscia che al bel desir troncate hai l’ale
- II. Signor, che insino a qui, tua gran mercede
- III. Quel che gli giorni a dietro
SONETTI
I
I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo piangendo, e la mia verde etate;
me che ’n sì vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.
Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,5
vo procacciando con le Muse amate;
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna,
e col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l’alma sciolta10
essere in pregio a più felice rive.
Questa spoglia, dov’or mi trovo involta,
forse tale alto Re nel mondo vive
che ’n saldi marmi la terrà sepolta.
II
Sacra Giunone, se i volgari amori
son de l’alto tuo cor tanto nemici,
i giorni e gli anni miei chiari felici
fa’ con tuoi santi e ben concessi ardori.
A voi consacro i miei verginei fiori,5
a te, o dea, e ai tuoi pensieri amici,
o de le cose sola alme beatrici,
che colmi il ciel de’ tuoi soavi odori.
Cingimi al collo un bello aurato laccio
de’ tuo’ più cari ed umili soggetti,10
che di servir a te sola procaccio.
Guida Imeneo con sì cortesi affetti
e fa’ sì caro il nodo ond’io mi allaccio,
ch’una sola alma regga i nostri petti.
III
D’un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s’alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.
Ma la mia adversa e dispietata stella5
non vuol ch’alcun conforto possa entrare
nel tristo cor, ma, di pietà rubella,
la calda speme in pianto fa mutare.
Ch’io non veggo nel mar remo né vela
(così deserto è lo infelice lito)10
che l’onde fenda o che la gonfi il vento.
Contra Fortuna alor spargo querela
ed ho in odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento.
IV
Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato,
de la tua ricca e fortunata riva
e de la terra, che da te deriva
il nome, ch’al mio cor oggi è sì grato;
s’ivi alberga colei, che ’l cielo irato5
può far tranquillo e la mia speme viva,
malgrado de l’acerba e cruda Diva,
ch’ogni or s’esalta del mio basso stato.
Non men l’odor de la vermiglia Rosa
di dolce aura vital nodrisce l’alma10
che soglian farsi i sacri Gigli d’oro.
Sarà per lei la vita mia gioiosa,
de’ grievi affanni deporrò la salma
e queste chiome cingerò d’alloro.
V
Non sol il ciel vi fu largo e cortese,
caro Luigi, onor del secol nostro,
del raro stil, del ben purgato inchiostro,
ma del nobil soggetto onde v’accese.
Alto Signor e non umane imprese5
ornan d’eterna fronde il capo vostro,
cose più da pregiar che gemme od ostro,
che dai tarli e dal tempo son offese.
Il sacro volto aura soave inspira
al dotto petto, che lo tien fecondo10
di glorïosi, anzi divini carmi.
Francesco è l’arco de la vostra lira,
per lui sète oggi a null’altro secondo,
e potete col son rompere i marmi.
VI
Fortuna che sollevi in alto stato
ogni depresso ingegno, ogni vil core,
or fai che ’l mio in lagrime e ’n dolore
viva più che altro afflitto e sconsolato.
Veggio il mio Re da te vinto e prostrato5
sotto la rota tua, pieno d’orrore,
lo qual, fra gli altri eroi, era il maggiore
che da Cesare in qua fusse mai stato.
Son donna, e contra de le donne dico
che tu, Fortuna, avendo il nome nostro,10
ogni ben nato cor hai per nemico.
E spesso grido col mio rozo inchiostro
che chi vuole esser tuo più caro amico
sia degli uomini orrendo e raro mostro.
VII
Ecco ch’una altra volta, o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o ignudi spirti di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna.
Ogni monte udirammi, ogni caverna.5
ovunqu’io arresti, ovunqu’io mova i passi;
ché Fortuna, che mai salda non stassi.
cresce ogn’or il mio mal, ogn’or l’eterna.
Deh, mentre ch’io mi lagno e giorno e notte,
o fere, o sassi, o orride ruine,10
o selve incolte, o solitarie grotte,
ulule, e voi del mal nostro indovine,
piangete meco a voci alte interrotte
il mio più d’altro miserando fine.
VIII
Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch’io sento da presso il fin amaro,
fa’ tu noto il mio duolo al Padre caro,
se mai qui ’l torna il suo destino acerbo.
Dilli come, morendo, disacerbo5
l’aspra Fortuna e lo mio fato avaro
e, con esempio miserando e raro,
nome infelice a le tue onde serbo.
Tosto ch’ei giunga a la sassosa riva
(a che pensar m’adduci, o fiera stella,10
come d’ogni mio ben son cassa e priva!),
inqueta l’onde con crudel procella
e di’: – Me accreber sì, mentre fu viva,
non gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella.
IX
Se a la propinqua speme nuovo impaccio
o Fortuna crudele o l’empia Morte,
com’han soluto, ahi lassa, non m’apporte,
rotta avrò la prigione e sciolto il laccio.
Ma, pensando a quel dì, ardo ed agghiaccio,5
ché ’l timore e ’l desio son le mie scorte:
a questo or chiudo, or apro a quel le porte
e, in forse, di dolor mi struggo e sfaccio.
Con ragione il desio dispiega i vanni
ed al suo porto appresso il bel pensiero10
per trar quest’alma da perpetui affanni.
Ma Fortuna al timor mostra il sentiero
erto ed angusto e pien di tanti inganni,
che nel più bel sperar poi mi dispero.
X
Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
un tempo, come sai, contra Fortuna,
sì che null’altra mai sotto la luna
di lei si dolse con voler più ardente.
Or del suo cieco error l’alma si pente,5
che in tai doti non scorge gloria alcuna.
e se de’ beni suoi vive digiuna.
spera arricchirsi in Dio chiara e lucente.
Né tempo o morte il bel tesoro eterno,
né predatrice e vïolenta mano10
ce lo torrà davanti al Re del cielo.
Ivi non nuoce già state né verno,
ché non si sente mai caldo né gielo.
Dunque ogni altro sperar, fratello, è vano.
CANZONI
I
Poscia che al bel desir troncate hai l’ale,
che nel mio cor sorgea, crudel Fortuna,
sì che d’ogni tuo ben vivo digiuna,
dirò con questo stil ruvido e frale
alcuna parte de l’interno male5
causato sol da te fra questi dumi,
fra questi aspri costumi
di gente irrazional, priva d’ingegno,
ove senza sostegno
son costretta a menare il viver mio,10
qui posta da ciascuno in cieco oblio.
Tu, crudel, de l’infanzia in quei pochi anni
del caro genitor mi festi priva,
che, se non è già pur ne l’altra riva,
per me sente di morte i grevi affanni.15
ché ’l mio penar raddoppia gli suoi danni.
Cesar gli vieta il poter darmi aita.
O cosa non più udita,
privar il padre di giovar la figlia!
Così, a disciolta briglia20
seguitata m’hai sempre, empia Fortuna,
cominciando dal latte e da la cuna.
Quella ch’è detta la fiorita etade,
secca ed oscura, solitaria ed erma
tutta ho passata qui cieca ed inferma,25
senza saper mai pregio di beltade.
È stata per me morta in te pietade,
e spenta l’hai in altrui, che potea sciorre
e in altra parte porre
dal carcer duro il vel de l’alma stanca,30
che, come neve bianca
dal sol, così da te si strugge ogni ora
e struggerassi infin che qui dimora.
Qui non provo io di donna il proprio stato
per te, che posta m’hai in sì ria sorte35
che dolce vita mi saria la morte.
I cari pegni del mio padre amato
piangon d’intorno. Ahi, ahi, misero fato,
mangiare il frutto, ch’altri colse, amaro
quei che mai non peccaro,40
la cui semplicità faria clemente
una tigre, un serpente,
ma non già te, ver noi più fiera e rea.
ch’al figlio Progne ed al fratel Medea.
Dei ben, che ingiustamente la tua mano45
dispensa, fatta m’hai tanto mendica,
che mostri ben quanto mi sei nemica,
in questo inferno solitario e strano
ogni disegno mio facendo vano.
S’io mi doglio di te sì giustamente50
per isfogar la mente,
da chi non son per ignoranza intesa
i’ son, lassa, ripresa:
ché, se nodrita già fossi in cittade,
avresti tu più biasmo, io più pietade.55
Baston i figli de la fral vecchiezza
esser dovean di mia misera madre;
ma per le tue procelle inique ed adre
sono in estrema ed orrida fiacchezza:
e spenta in lor sarà la gentilezza60
dagli antichi lasciata a questi giorni,
se dagli alti soggiorni
pietà non giunge al cor del Re di Francia,
che, con giusta bilancia
pesando il danno, agguaglie la mercede65
secondo il merto di mia pura fede.
Ogni mal ti perdono,
né l’alma si dorrà di te giamai
se questo sol farai
(ahi, ahi, Fortuna, e perché far no ’l dêi?)70
che giungano al gran Re gli sospir miei.
II
Signor, che insino a qui, tua gran mercede
con questa vista mia caduca e frale
spregiar m’hai fatto ogni beltà mortale,
fammi di tanto ben per grazia erede,
che sempre ami te sol con pura fede5
e spregie per innanzi ogni altro oggetto,
con sì verace affetto,
ch’ognun m’additi per tua fida amante
in questo mondo errante,
ch’altro non è, senza il tu’ amor celeste,10
ch’un procelloso mar pien di tempeste.
Signor, che di tua man fattura sei,
ov’ogni ingegno s’affatica in vano,
ritrarre in versi il tuo bel volto umano
or sol per disfogare i desir miei,15
ad altri no, ma a me sola vorrei,
ed iscolpirmi il tuo celeste velo,
qual fu quando dal Cielo
scendesti ad abitar la bassa terra
ed a tor l’uom di guerra.20
Questa grazia, Signor, mi sia concessa
ch’io mostri col mio stil te a me stessa.
Signor, nel piano spazio di tua fronte
la bellezza del Ciel tutta scolpita
si scorge, e con giustizia insieme unita25
de l’alta tua pietade il vivo fonte,
e le pie voglie a perdonarci pronte.
Ombre dei lumi venerandi e sacri,
di Dio bei simulacri,
ciglia, del cor fenestre, onde si mostra30
l’alma salute nostra;
occhi che date al sol la vera luce,
che per voi soli a noi chiara riluce!
Signor, cogli occhi tuoi pien di salute
consoli i buoni ed ammonisci i rei35
a darsi in colpa di lor falli rei;
in lor s’impara che cosa è virtute.
O mia e tutte l’altre lingue mute,
perché non dite ancor de’ suoi capelli,
tanto del sol più belli40
quanto è più bello e chiaro egli del sole?
O chiome uniche e sole,
che, vibrando dal capo insino al collo,
di nuova luce se ne adorna Apollo!
Signor, da questa tua divina bocca45
di perle e di rubini escon di fore
dolci parole ch’ogni afflitto core
sgombran di duolo e sol piacer vi fiocca
e di letizia eterna ogniun trabocca.
Guancie di fior celesti adorne, e piane50
a le speranze umane;
corpo in cui si rinchiuse il Cielo e Dio,
a te consacro il mio:
la mente mia qual fu la tua statura
con gli occhi interni già scorge e misura.55
Signor, le mani tue non dirò belle
per non scemar col nome lor beltade,
mani, che molto innanzi ad ogni etade
ci fabricâr la luna, il sol, le stelle:
se queste chiare son, quai saran elle?60
Felice terra, in cui le sacre piante
stampâr tant’orme sante!
A la vaghezza del tuo bianco piede
il Ciel s’inchina e cede.
Felice lei, che con l’aurate chiome65
le cinse e si scarcò de l’aspre some!
Canzon, quanto sei folle,
poi che nel mar de la beltà di Dio
con sì caldo desio
credesti entrare! Or c’hai ’l camin smarrito,70
réstati fuor, ché non ne vedi il lito.
III
Quel che gli giorni a dietro
noiava questa mia gravosa salma,
di star fra queste selve erme ed oscure,
or sol diletta l’alma;
ché da Dio, sua mercé, tal grazie impetro5
che scorger ben mi fa le vie secure
di gire a lui fuor de le inique cure.
Or, rivolta la mente a la Reina
del Ciel, con vera umiltade,
per le solinghe strade10
senza intrico mortal l’alma camina
già verso il suo riposo,
che ad altra parte il pensier non inchina,
fuggendo il tristo secol sì noioso,
lieta e contenta in questo bosco ombroso.15
Quando da l’orïente
spunta l’Aurora col vermiglio raggio
e ne s’annuncia da le squille il giorno,
allora al gran messaggio
de la nostra salute alzo la mente20
e la contemplo d’alte glorie adorno
nel basso tetto, dove fea soggiorno
la gran Madre di Dio c’or regna in Cielo.
Così, godendo nel mio petto umile,
a lei drizzo il mio stile25
e ’l fral mio vel di roze veste velo
e sol di servir lei,
non d’altra cura, al cor mi giunge zelo,
seguendo le vestigia di colei
che dal deserto accolta fu tra i Dei.30
Quando da poi fuor sorge
Febo, che fa nel mar la strada d’oro,
tutta m’interna e l’allegrezza immensa
c’ebbe del suo tesoro
quella che tanta grazia or a me porge;35
ch’io la riveggio con la mente intensa
mirare il figlio in caritate accensa,
nato fra gli animai, con pio sembiante;
e del sangue che manda al petto il core
nodrire il suo Signore;40
e scerno il duce de l’eterno amante
sotto povere veste
spregiar le pompe del vulgo arrogante,
colui che sol pregiò l’aspre foreste
e fu fatto da Dio tromba celeste.45
Poi che ’l suo chiaro volto
alzando, da le valli scaccia l’ombra
il biondo Apollo col suo altero sguardo,
un bel pensier m’ingombra:
parmi veder Giesù nel tempio, involto50
fra saggi, disputar con parlar tardo,
e lei, per ch’io d’amor m’infiammo ed ardo,
versar dagli occhi, per letizia, pianto.
Questi conforti incontra i duri oltraggi
m’apportan questi faggi,55
lungi schivando di sirene il canto;
ché per solinghe vie
il bel gioven, a Dio diletto tanto,
con le sue caste voglie e sante e pie
vide il sentier de l’alte ierarchie.60
Alzato a mezo il polo
il gran pianeta co’ bollenti rai,
ch’uccide i fiori in grembo a primavera,
s’alcuno vide mai
crucciato il padre contra il rio figliuolo,65
così contemplo Cristo, in voce altera
predicando, ammonir la plebe fera
e col cenno, del qual l’Inferno pave,
romper le porte d’ogni duro core,
cacciando il vizio fore.70
Quanto ti fu a vedere, o Dea, soave
gli error conversi in cenere
del caro figlio in abito sì grave?
Quanto beata fu chi le sue tenere
membra a Dio consacrò, sacrate a Venere?75
E se l’eterno Foco
giunge tant’alto ch’al calar rimira,
ti scorgo, o Signor mio, fra i tuoi fratelli
senza minaccie od ira
del tuo amor infiammarli a poco a poco,80
e co’ leggiadri detti e gravi e belli
render beati e pien di grazia quelli,
lor rammentando pur la santa pace.
La gioia del mio cor, ch’amo ed adoro,
contemplo fra coloro,85
che i santi esempi tuoi raccoglie e tace.
O via dolce e spedita
trovata già nel vil secol fallace;
e chi ’l primiero fu, dal Ciel m’addita
sol de l’erèmo la tranquilla vita.90
Per voi, grotta felice,
boschi intricati e rovinati sassi.
Sinno veloce, chiare fonti e rivi,
erbe che d’altrui passi
segnate a me vedere unqua non lice,95
compagna son di quelli spirti divi,
c’or là su stanno in sempiterno vivi,
e nel solare e glorïoso lembo
de la madre, del padre e del suo Dio
spero vedermi anch’io100
sgombrata tutta dal terrestre nembo,
e fra l’alme beate
ogni mio bel pensier riporle in grembo.
O mie rimote e fortunate strate,
donde adopra il Signor la sua pietate!105
Quanto discovre e scalda il chiaro sole,
canzon, è nulla ad un guardo di lei,
ch’è Reina del Ciel, Dea degli dei.
Bibliografia:
• Morra, Isabella di, Rivista di letteratura italiana, Pisa: Giardini, 1983.
© Silvia Licciardello. Riproduzione riservata.