Guido Cavalcanti

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Poeta molto amico di Dante Alighieri a capo del movimento poetico del Dolce Stil Novo, nacque a Firenze intorno al 1255, esponente di spicco di una potente famiglia aristocratica di parte guelfa. Nel 1267 fu concordato dalla famiglia il suo fidanzamento con Beatrice, figlia del potente Farinata degli Uberti (esponente del partito ghibellino) nel tentativo di sanare le rispettive rivalità, dal matrimonio nacquero i figli Tancia e Andrea. Guido Cavalcanti occupò diverse cariche pubbliche, entrando a far parte del Consiglio generale del comune con Brunetto Latini e Dino Compagni (1284), prendendo parte alla vita pubblica di Firenze fino al 1293, anno in cui gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella lo esclusero, insieme a tutta la classe aristocratica, dai pubblici uffici. Nel maggio del 1300, in seguito a scontri di particolare violenza che misero a repentaglio l’intera comunità, i priori del comune (tra cui anche Dante, esiliato da quel momento insieme alla famiglia) firmarono l’espulsione da Firenze di tutti gli esponenti più facinorosi delle due fazioni in lotta, e il C., d’indole aristocratica e incline allo scontro (militante dei guelfi bianchi) oltreché nemico giurato della famiglia dei Donati (partito dei neri), fu costretto all’esilio a Sarzana, dove si ammalò di malaria e malgrado l’immediato rientro a Firenze, morì dopo qualche mese.

Cavalcanti scrisse cinquantadue componimenti tra cui sonetti, ballate e canzoni; le forme a lui più congeniali furono soprattutto la ballata e il sonetto, forme ampiamente utilizzate anche dai suoi contemporanei. La più famosa tra le canzoni invece fu la Donna me prega, studiatissima già dai contemporanei, in cui il C. vi riservò la sua personale speculazione filosofica sull’amore in linea con le invenzioni stilistiche dei trovatori provenzali. Nella canzone troviamo una rappresentazione della poetica dei Fedeli d’Amore, elaborata insieme a Dante Alighieri e citata nella Vita Nova. L’amore viene vissuto come una passione subìta dall’anima, portatrice di sentimenti d’angoscia, paura e morte. Nei sonetti prevale questa concezione tragica, basata sul tema del tormento d’amore, i toni sono drammatici e pieni d’implicazioni di carattere filosofico; diversamente le ballate sono caratterizzate da un tono più leggero e soave.

 

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Sommario

  • Selezione di rime d'amore

SELEZIONE DI RIME D’AMORE

I

Se ’n questo dir presente si contene
alcuna cosa che sia contra onore,
la qual per vizio sia del dicitore
over de la sentenza com s’avene,

i’ prego quei, nel cui cospetto vene,5
che ciaschedun proveggia per amore
como seguito i’ aggio a ciascun core
lo su’ voler, dicendo gioia e pene

vertude e vizio come m’à mostrato,
per sadisfar ciascun nel su’ disio10
mantenendo maniera di servire.

E, se in ciò mespreso aggio nel dire,
in verità, secondo il parer mio,
cortese fallimento è ciò istato.

 

II

Se unqua fu neun, che di servire
acconcio fosse ben lo suo volere
’a ciaschedun secondo su’ podere,
sì son’ io un di quei che v’à ’l desire

e ch’amerei innanzi di morire5
che di nò dir, faciendone spiacere
di cosa, in ch’io potesse mantenere
l’amico a me senza farlo partire:

sì ch’ubbidir’ talora mi convene
però di dir che non m’è bene in grato:10
ma ’1 fo per la ragion davanti detta.

Onde se non è l’opera perfetta,
tutto ch’i’ non mi sia però scusato,
ricordo ’1 fallo ch’i’ conosco in mene.

 

III

Perfetto onore, quanto al mi’ parere,
non puote avere - chi non è soffrente,
né fra la gente - acconcio capere
poi che tenere - vi si vuol possente:

né non neente - d’umiltà savere,5
onde ’l piacere - vene a chi la sente,
perchè ’1 saccente - briga a suo podere
di sé tenere - lungi a lui sovente:

ed è piacente - in ciò la sua usanza,
che costumanza - non seria già bona10
lui di persona - ch’ave per pietanza

noia e pesanza - ina voglia e somona
quel cui dio dona - onor e baldanza
e per leanza - del sofrir corona.

 

IV

Amico mio, per dio, prendi conforto
in questa tenebrosa val mondana,
mentre che ci dimori, e vieni a porto
in qual maniera far lo puoi più sana

né non ti lamentar già d’alcun torto5
che ci ricevi, né ti paia istrana
cosa ch’avvenir veggi, ma accorto
dimora de la ria farti lontana.

Che questo mondo fue così chiamato
da la scrittura che’ santi trovaro,10
che non ci vien neun, sì sia beato,

ch’assai lo stallo no li sembri amaro:
onde se ci ti senti tu gravato
in pace il ti comporta ch’i lo’ mparo.

 

V

I’ vivo di speranza: e cosí face
ciascun ch’al mondo vene, al mi’ parere;
e, poi mi veggio compagnia avere
di tanta buona gente, dòmmi pace.

Tuttor aspetto e l’aspettar mi piace,5
credendomi avanzar lo mi’ podere:
così segue ciascun questo volere
e ’n sì fatto disio dimora e giace.

Ma tutta volta ci è men tormentato
quei che si sape acconcio comportare10
ciò che ne lo sperare altrui avene.

Non dich’io questo già certo per mene,
che ’n nessun tempo l’ò saputo fare,
e s’or l’apprendo, l’ò car comperato.

 

VI

Chi vuole aver gioiosa vita intera
fermisi bene in amar per amore,
ed aggia canoscenza dritta e vera
senza partir da ciò su’ cor null’ore;

ma solo guardi che sia la matera5
tal, che per fine non segua dolore,
e che partendo e stando già non pera
che d’esso non sia nato bon savore:

Non tegno amor già quel che fina male,
ma volontà villana ed innoiosa10
per sol seguire al vizio mortale.

Ma tegno amor che vai sovr’ogni cosa
quel, ch’ama il corpo e l’alma per iguale,
ricchezza e povertà, qual venir osa.

 

VII

Molto m’è viso che sia da blasinare
chi puote e non tener vuol buona via
e chi più crede un falso lusingare
ch’un dolce amaestrar di cortesia.

E anche più chi non sape acquistare5
e l’acquistato perde a sua follia,
e lascia quel che doveria pigliare,
e prende ciò ch’onn’altr’om lasceria.

E sovre tutto i’ blasmo forte ancóra
chi, per su’ ngiegno, di leale amico10
fa che nemico sempre li dimora.

Ormai ’ntenda chi voi ciò ch’i’ dico
e’ mpari senno chi bisogno fora.
Se no li piace indarno mi fatico.

 

VIII

Ai! buona fede, a me forte nemica!
Neente non mi val ch’i voglia avere
tua compagnia, che tuttor a podere
mi struggi col penser che mi notrica,

sì che rimaso son quasi nemica,5
essendo umile e con merzè cherere,
in quella via che tu mi fai tenere,
fede, ispietata mia guerriera antica.

Chè guerra posso ben la tua chiamare
poi che m’offendi essendoti fedele10
nè non mi lasci aver punto di bene:

che l’om di buona fé ci vive in pene,
e vedesi donar tosco per mele,
né più non à da te che lo sperare.

 

IX

Omo non fu ch’amasse lealmente
in esto mondo mai senza dolore;
né che ci dimorasse con dolzore
un’ora, che non fosse un dì dolente.

Chè par ch’amore vigiti sovente5
di cotal guisa il suo fin amadore,
e che ciascuna donna, ch’ave amore,
cagioni il suo amante ispessamente.

Perch’io non maraviglio, donna mia,
se vi piace di porre a me cagione;10
che amo tanto vostra segnoria;

né già non partirò, ch’i’ non vi sia
leale ed ubidente onne stagione,
merzè cherendo a vostra cortesia.

 

X

D’amore vene ad om tutto piacere,
da gelosia ispiacer grave e pesanza:
d’amore è l’om cortese a suo podere,
da gelosia villan con mal’usanza:

d’amore è ch’om si fa largo tenere,5
da gelosia iscarso d’iguaglianza:
d’amore è l’omo ardito e sa valere.
da gelosia codardo esser n’avanza:

d’amor ven tutto ben comunemente
quanto se n’può pensare od anche dire,10
perch’io amo di lui esser servente:

da gelosia ven poi similemente
male e dolore, affanno con martire,
perch’io l’odio a podere e m’è spiacente.

 

XI

Avegna che d’amore aggia sentito,
alcuna volta nel merzè chiamare,
cosa gravosa e soverchio pensare,
non or me n’ blasmo d’averl’ubidito:

chè si perfettamente il m’à merito5
di vita dolce nel pietà trovare,
che ora laudo lo bon aspettare,
e la speranza donde son nodrito.

Essendo ardito di donar consiglio
a tutti amanti che sono ’n disio10
che non lor gravi lo dolce soffrire:

c’amor, più ch’om non puote lui servire
in tutto tempo — e questo ò provat’io —
rende ’n un giorno: perch’a lui m’appiglio.

 

XII

Bench’i’ ne sia alquanto intralasciato
non ò ubliato d’amor lo mistero,
ch’è tutta volta ne lo mio pensero
e lui vol esser tutto accomandato:

ch’a tal conosco m’à per servo dato,5
che ave in sè saver compiuto e ’ntero;
nè di bieltà più bella non richero,
che esser non poria a lo mio grato.

E, se istato ne son quasi muto,
non deve ciò ad amor dispiacere,10
chè lo disio coperto è da laudare:

E del riccor, ch’uom sape acconcio usare,
tuttor se n’ vede gloria e bene avere,
e lo contraro chi l’à mal perduto.

 

XIII

Ne l’amoroso affanno son tornato
ed òmmi miso amore a sostenere:
la più dolce fatica, al mi’ parere,
che sostenesse mai null’omo nato.

Chè ’n quello loco, ove m’à servo dato,5
dimoro sì con tutto il mi’ volere,
che segnoria non è nè nul piacere
ch’i’ più volesse nè mi fosse ’n grato.

Chè giovane bieltade e cortesia,
saver compiuto con perfetto onore10
tuttor si trova in quella, cui disio.

Più non ne dico: chè teme ’l cor mio,
se più contasse di su’ gran valore,
ciascun saprebbe: quegli in tal disia.

 

XIV

I’ sono alcuna volta domandato,
risponder mi convene che è amore,
che dolcemente move; e di bon lato
tengo colui, che voi conoscidore

esser di quel segnor, per cui guidato5
è tutta volta ciascun gentil core:
d’altro non mette cura, ch’à finato
nè può sentir null’or di su’ dolzore.

Amore è un solicito pensero
continuato sovr’alcun piacere,10
che l’occhio à rimirato volontero:

si che, imaginando quel vedere,
nasc’indi amor, ched è segnore altero
nel cor, ch’ò detto ch’à gientil volere.

 

XV

Otto comandamenti face amore
a ciascun gientil core innamorato:
lo primo che cortese in ciascun lato
sia, e ’l secondo largo a tutte l’ore.

Non amar donna ’ltrui è ’l terzo onore,5
rilegion guardar dal quarto lato,
ben proveder di porres’in su’ grato
è ’l quinto, che de’ l’omo avere in core.

Or lo sesto è cortese, al mi’ parere,
che d’esser credenzier fermo comanda:10
col sette a presso onoranza tenere

a l’amorose donne con piacere:
donandoci poi l’otto per vivanda,
che ardimento ci dobiamo avere.

 

XVI

Nobil pulzella dolce ed amorosa,
sovra ciascuna doglia è ’l mio dolore,
poi veggio impallidito lo colore
di voi, cui amo più di nulla cosa.

Ch’esser solea vostra cera gioiosa5
più dolce a rimirar ch’altro bellore,
perchè à poco ch’i’ non blasmo amore
s’a voi e’ dona tal pena gravosa

o di neente grava il vostro viso:
che piangiere mi facie e lagrimare10
lo greve mal che n’à levato il riso,

sì che solo ’l pensar me n’à conquiso;
onde, per Deo, vi piaccia confortare
per torre via lo mal ch’è tra noi miso.

 

XVII

Com’io mi lamentai per lo dolore
di voi, mia gioia, e pena ne portava,
degi’ or cantar di gioia e di dolzore,
poi torno e veggio quel ch’i’ disiava.

Tornato v’è l’angielico colore5
che tanto dolcemente e ben vi stava,
poi si partì lo mal, ch’a tutte l’ore
piangiere mi faceva e lagrimava

in ricordando lo greve peccato:
che mi parea che voi foste gravata10
di guisa che ’l color n’era cangiato.

Ma or ch’i’ veggio allegra ritornata
la dolze ciera e ’l viso dilicato
sovr’onne gioia la mia tengo doblata.

 

 

XVIII

Partitevi, messer, da più cherere
quello ’nde si diparte lo mio core,
nè non s’acconci lo vostro volere
orma’ inver me di così fatto amore,

chè ’n tutto dico che no m’è ’n piacere.5
Così non fosse stato mai null’ore!
ma giovanezza tene in su’ podere
manti, cui spesso face far follore.

Ed io, se ’n vano amor giovan’ essuta
son nel mi’ tempo o fatto ò cosa vana,10
dicovi ch’i’ ne son forte pentuta.

E parmi or dimorare in vita sana
essendomi sì ben riconosciuta
e d’ogni vanità fatta lontana.

 

XIX

Gientil mia donna, ciò che voi tenere
volete, piace a me ed è dolzore,
però ched è acconcio il mio savere
in far tuttor che sia di vostr’onore;

ma dir ched i’ potesse forza avere5
di dipartir, ch’i’ non fosse amadore
di voi, cui amo tanto, al mi’ parere
son cierto non poria partirne n’ fiore.

E quanto più ci penso, più m’aiuta
lo fin pensier, e allor più ingrana10
in me l’amor, che ’n voi, dite, s’attuta.

Perch’io spero ancor, donna sovrana,
trovar merzè in voi tutta compiuta
per l’umiltà ch’è ’n voi sì dolce e piana.

 

XX

Messer, l’umilità donde parlate
e quel che vo’ appellate cortesia,
mi vieta duramente e toglie ’l frate,
e danne penitenza in fede mia.

Perch’a me par che mal mi consigliate5
dicendo ch’i’ ritorni tuttavia
a quella mala via di vanitate,
ched e’ mi dicie ch’è sì forte e ria.

Tuttoch’anche la sua è forte assai
ed àmmi duramente ispaventata;10
ma pur non credo ricader già mai.

Non so ben là dov’io mi sono intrata:
l’un m’iinpromette gioia e l’altro guai:
se ’l me’ non prendo assai sarò malnata.

 

Bibliografia:
• Cavalcanti, Guido Le rime , a cura di Ercole Rivalta, Bologna : Zanichelli, 1902.
• Naccucci, Vincenzio Manuale della letteratura del primo secolo della lingua italiana , volume II, Firenze, Tipografia Magheri, 1838.

 

Nota filologica: Il testo delle rime segue la variantistica proposta dall’edizione Rivalta, Zanichelli 1902.

© Silvia Licciardello. Riproduzione riservata.