Capitoli
Giovanni Della Casa
Giovanni della Casa: Biografia
Letterato e arcivescovo italiano, noto soprattutto per il famoso Galateo, nacque a Borgo San Lorenzo nel 1503 da Pandolfo della Casa e Lisabetta Tornabuoni. Studiò a Bologna e Firenze con Ubaldino Bandinelli e altri importanti letterati del tempo e nel 1532 intraprese la carriera ecclesiastica per interessamento di Alessandro Farnese (papa Paolo III). Nel 1544 diventò arcivescovo di Benevento e, lo stesso anno, papa Paolo III lo nominò nunzio apostolico a Venezia. Giovanni della Casa si trasferì in un sontuoso palazzo sul Canal Grande e vi tenne un salotto frequentato dalla migliore nobiltà veneziana e gli artisti, letterati e poeti più in voga. Scrisse numerosi versi e un trattato in latino sul valore del matrimonio Quaestio lepidissima: an sit uxor ducenda (riflessione forse stimolata dalla nascita di un figlio) ma l’opera fu tradotta in italiano solo nel 1976, a cura di Luigi Silori. Durante il suo ufficio introdusse in Veneto il tribunale dell’Inquisizione e nel 1548 compilò un Indice dei libri proibiti finora mai tradotto. Nel 1544, il periodo dei fasti salottieri terminò bruscamente a causa del suo declino politico, quando si mise in cattiva luce a causa della protezione offerta al fuggiasco Lorenzino de’ Medici (colpevole dell’omicidio del cugino Alessandro de’ Medici, duca di Firenze) e a causa di ciò non ricevette mai la porpora cardinalizia, inoltre alla morte di papa Paolo III, e l’elezione di papa Giulio III, dovette lasciare sia Venezia che Roma. Si trasferì a Nervesa (Treviso), dove compilò il suo celebre Galateo overo de’ costumi, con una dedica a monsignor Galeazzo Florimonte. Richiamato da papa Paolo IV, morì a Roma nel 1556. Le sue Rime furono edite postume ed ebbero larga diffusione tra i letterati del tempo per un uso innovativo dell’enjambement, chiamato poi «legato dellacasiano», utilizzato anche da Tasso e da Ugo Foscolo.
Giovanni della Casa: Opere in catalogo
Orazione a Carlo V
Scritta a Carlo V imperatore intorno alla restituzione della città di Piacenza
[Paragrafo] I
Sì come noi veggiamo intervenire alcuna volta, sacra Maestà, che, quando o cometa o altra nuova luce è apparita nell'aria, il più delle genti, rivolte al cielo, mirano colà dove quel maraviglioso lume risplende, così avviene ora del vostro splendore e di voi; perciocché tutti gli uomini ed ogni popolo e ciascuna parte della terra risguarda inverso di voi solo. Né creda Vostra Maestà che i presenti Greci e noi Italiani ed alcune altre nazioni dopo tanti e tanti secoli si vantino ancora e si rallegrino della memoria de' valorosi antichi prencipi loro, ed abbiano in bocca pur Dario e Ciro e Xerse e Milziade e Pericle e Filippo e Pirro ed Alessandro e Marcello e Scipione e Mario e Cesare e Catone e Metello, e questa età non si glorii e non si dia vanto di aver voi vivo e presente; anzi se ne essalta e vivene lieta e superba. Per la qual cosa io sono certissimo che, essendo voi locato in sì alta e sì riguardevol parte, ottimamente conoscete che al vostro altissimo grado si conviene che ciascun vostro pensiero ed ogni vostra azione sia, non solamente legitima e buona, ma insieme ancora laudabile e generosa, e che ciò che procede da voi sia, non solamente lecito e conceduto ed approvato, ma magnanimo insieme e commendato ed ammirato: conciossiacosaché la vostra vita, i vostri costumi e le vostre maniere e tutti i vostri preteriti e presenti fatti, siano non solamente attesi e mirati, ma ancora raccolti e scritti e diffusamente narrati da molti; sicché, non gli uomini soli di questo secolo, ma quelli che nasceranno dopo noi, e quelli che saranno nelle future età e nella lunghezza e nella eternità del tempo a venire, udiranno le opere vostre e tutte ad una ad una le saperanno e, come io spero, le approveranno tutte sì come diritte e pure e chiare e grandi e maravigliose; e, quanto il valore e la virtù fia cara agli uomini ed in prezzo, tanto fia il nome di Vostra Maestà sommamente lodato e venerato.
[Paragrafo] II
Vera cosa è che molti sono, i quali non lodano così pienamente ch'ella ritenga Piacenza, come essi sono constretti di commendare ogni cosa che insino a quel dì era stata fatta da voi. E, quantunque assai chiaro indizio possa essere a ciascuno che questa opera è giusta, poi che ella è vostra e da voi operata, non di meno, perocché ella nella sua apparenza e quasi nella corteccia di fuori non si confà con le altre vostre azioni, molti sono coloro che non la riconoscono e non l'accettano per vostro fatto, non contenti che ciò che ha da voi origine si possa a buona equità difendere, ma disiderosi che ogni vostra operazione si convenga a forza lodare. E veramente, se io non sono ingannato, coloro che così giudicano, quantunque eglino forse in ciò si dipartano dalla ragione, non di meno largamente meritano perdono da Vostra Maestà, perciocché, se essi attendono e ricercano da lei, e fra le ricchezze della sua chiarissima gloria, oro finissimo e senza mistura, ed ogni altra materia, quantunque nobile e preziosa, rifiutano da voi, la colpa è pure di Vostra Maestà, che avete avezzi ed abituati gli animi nostri a pura e fine magnanimità per sì lungo e sì continuo spazio. Perché, se quello che si accetterebbe da altri per buono e per legitimo, da voi si rifiuta e, non come non buono ma come non vostro e non come scarso ma come non vantaggiato, non si riceve e perché voi lo scambiate vi si rende, ciò non si dee attribuire a biasimo de' presenti vostri fatti, ma è laude delle vostre preterite azioni. E, quantunque l'aver Vostra Maestà, non dicotolta, ma accettata Piacenza, si debba forse in sé approvare, non di meno, perciocché questo fatto verso di voi, e con le altre vostre chiarissime opere comparato per rispetto a quelle, molto men riluce e molto men risplende, esso non è da' servidori di Vostra Maestà, com'io dissi, volentier ricevuto né lietamente collocato nel patrimonio delle vostre divine laudi.
E veramente egli pare da temer forte che questo atto possa recare al nome di Vostra Maestà, se non tenebre, almeno alcuna ombra, per molte ragioni; le quali io priego Vostra Maestà che le piaccia di udire da me diligentemente, non mirando quale io sono, ma ciò che io dico. E perché alcuni, accecati nella avarizia e nella cupidità loro, affermano che Vostra Maestà non consentirà mai di lasciar Piacenza, checché disponga sopra ciò la ragion civile, conciossiaché la ragion degli Stati no 'l comporta, dico che questa voce è non solamente poco cristiana, ma ella è ancora poco umana; quasi l'equità e l'onestà, come i vili vestimenti e grossi si adoperano ne' dì da lavorare e non ne' solenni, così sia da usare nelle cose vili e meccaniche e non ne' nobili affari: anzi è il contrario, perocché la ragione alcuna volta, come magnanima, risguarda le picciole cose private con poca attenzione, ma nelle grandi e massimamente nelle publiche vegghia ed attende, sì come quella che nostro Signore Dio ordinò ministra, facendola quasi ufficiale sopra la quiete e sopra la salute della umana generazione. Il che in niuna altra cosa consiste che nella conservazione di sé e di suo avere a ciascuno; e però chiunque la contrasta, e specialmente nelle cose di Stato ed in occupando le altrui iurisdizioni o possessioni, niuna altra cosa fa che opporsi alla natura e prendere guerra con Dio: perocché, se la ragione, con la quale gli Stati sono governati e retti, attende solo il commodo e l'utile, rotto e spezzato ogni altra legge ed ogni altra onestà, in che possiamo noi dire che siano differenti fra loro i tiranni ed i re, e le città ed i corsali, o pure gli uomini e le fiere? Per la qual cosa io sono certissimo che sì crudele consiglio non entrò mai nel benigno animo di Vostra Maestà, né mai vi fia ricevuto; anzi sono io sicuro che le vostre orecchie medesime aborriscono cotal voce barbara e fiera. Né di ciò puote alcuno con ragione dubitare, se si arà diligentemente risguardo alla preterita vita di Vostra Maestà ed alle maniere che ella ha tenute ne' tempi passati: conciossiaché ella, potendo agevolmente spogliar molti Stati della loro libertà, anzi avendola in sua forza, l'ha loro renduta ed hannegli rivestiti: ed ha voluto più tosto, usando magnanimità, provare la fede altrui con pericolo che, operando iniquità, macchiar la sua con guadagno. Avete adunque lasciato i Genovesi ed i Lucchesi e molte altre città nella loro franchezza, essendo in vostro potere il sottomettergli alla vostra signoria per diversi accidenti. Ed oltre a ciò, non foste voi lungo tempo dipositario di Modona e di Reggio? E, se a voi stava il ritener quelle due città ed il renderle, perché eleggeste voi di darle al duca di Ferrara? O perché gliele rendeste? Certo non per altro, se non che la giustizia e l'onestà vinse e superò la cupidigia e l'appetito e fu nella grandezza dell'animo vostro in più prezzo la ragione dannosa che l'inganno utile. E per questa cagione medesima rendé eziandio Vostra Maestà Tunisi a quel re moro e barbaro. Io lascio stare e Bologna e Fiorenza e Roma e molti altri Stati, de' quali voi per avventura areste potuto agevolmente in diversi tempi farvi signore; ma, non parendovi di far bene e giustamente, ve ne siete astenuto. Perché, se l'utile vi consiglia a ritener Piacenza, secondo che questi voglion che altri creda, l'onore e la giustizia, troppo migliori consiglieri e di troppo maggior fede degni, dall'altro lato ve ne sconsigliano essi e non consentono che quello invitto ed invincibile animo, il quale, non ha gran tempo passato, per pacificare i Cristiani fra loro che erano in dissensione, non ricusò di dare altrui tutto lo Stato di Melano che era suo, ora per ritener Piacenza sola, e forse non sua, voglia turbare i Cristiani, che sono in pace, e porgli in guerra ed in ruina. Per la qual cosa, quantunque costoro, seguendo il pusillanimo appetito di guadagnare, molto lusinghino Vostra Maestà, io son certo che ella per niun partito si indurrà già mai ad ascoltarli, né vorrà sofferire che i suoi nimici o coloro che nasceranno dopo noi possano, eziandio falsamente, fra le sue chiarissime palme e fra le sue tante e sì diverse e sì gloriose vittorie annoverare né mostrare a dito furto né inganno né rapina. E certo quelle fortissime braccia, le quali con tanto vigore hanno la Magna armata e contrastante scossa ed abbattuta, non degneranno ora di ricogliere in terra e nel sangue e tra gl'inganni le spoglie miserabilissime d'un morto; né la vostra conscienza, avvezza ad aver candida, non pure la vista di fuori, ma i membri e le interne parti tutte, comporterà ora di essere, non secondo il suo costume bella e formosa, ma solamente ornata e lisciata. Alla qual cosa fare alcuni per avventura la consigliano, e voglion nascondere sotto 'l nome della ragione l'opera della fraude e della violenza, e l'impresa che è cominciata con la forza voglion terminare co' piati e con le liti. I quali turbano e confondono l'ordine delle cose e della natura, in quanto la forza naturalmente debbe esser ministra ed essecutrice della ragione, ed eglino, ora che Piacenza è venuta in man vostra con la forza, ricorrendo alle liti ed a' giudicii fanno la giustizia della violenza serva e seguace. E, quando a Vostra Maestà sarebbe stata lodevol cosa il chiedere giustizia, essi usarono i fatti e l'opere; ma, ora che il fare e l'operare è commendabile e debito a Vostra Maestà, voglion che ella usi le parole e le cautele e che ella col mezzo della falsa ragione prenda la difesa della loro vera ingiustizia. A' quali, se io ho ben conosciuto per lo passato il valore e la grandezza dell'animo vostro, niuna udienza darà ora Vostra Maestà, non che ella consenta loro alcuna cosa intorno a questo fatto, i quali assai chiaramente confessano di quanta riverenza sia degna la ragione, poiché essi medesimi che la contrariano sono constretti di rifuggire a lei.
E, se non che io crederei col raccontare i giusti fatti degli antichi valorosi uomini offendere Vostra Maestà, quasi la sua dirittura fosse retta e regolata con gli altrui essempi e non con la sua natural virtù, io produrrei molte istorie, per le quali chiaramente apparirebbe la ragione e l'onestà in ogni tempo essere state più del guadagno e più dell'utile apprezzate e riverite. E direi che gli Ateniesi, per lo cui studio la virtù stessa si dice essere divenuta più leggiadra e più vaga e più perfetta, per niuna condizione si volsero attenere al consiglio di Temistocle, perciocché egli non si poteva onestamente usare, tutto che fosse senza alcun fallo utilissimo; e che il vostro antico Romano rifiutò di prendere i nobili fanciulli che il loro scelerato maestro gli appresentava, quantunque egli non parentado né amistà, ma scoperta guerra avesse e palese inimicizia con esso loro. E non tacerei che la cupidigia consigliava parimente i Romani che ritenessero Reggio, terra possente in quel tempo e situata così di costa alla Sicilia, come Piacenza a Cremona ed a Melano è di rimpetto: ma l'onestà e la ragion vera e legitima richiedeva che essi la restituissero, perocché per furto e per rapina la possedevano. Per la qual cosa quel valoroso e diritto popolo, il quale Vostra Maestà rappresenta ora e dal quale lo 'mperio del mondo ancora ha suo nome, come che naturalmente fosse feroce e guerrero non solamente non accettò la male acquistata possession di Reggio, ma con aspra vendetta e memorabile punì que' suoi soldati che l'aveano occupata a forza, non guardando che quell'utile, che oggi si chiama ragion di Stato, consigliasse altramente. Ma, perocché io sono certissimo che il buon volere di Vostra Maestà non ha bisogno di stimolo alcuno, non è necessario che io dica più avanti de' giusti fatti degli antichi uomini; che molti e molto chiari ne potrei raccontare. Invano adunque si affaticano coloro che fanno due ragioni, l'una torta e falsa e dissoluta e disposta a rubare ed a mal fare (ed a questa han posto nome ragion di Stato, ed a lei assegnano il governo de' reami e degli imperii); e l'altra semplice e diritta e constante (e questa sgridano dalla cura e dal reggimento delle città e de' regni, e caccianla a piatire ed a contendere tra i litiganti): imperocché Vostra Maestà l'una sola delle due conosce e quella sola ubidisce ed ascolta, così nel governo del supremo ufficio, al quale da Divina Maestà l'ha eletta, come nelle differenze private e negli affari civili né più né meno; e quella altra fiera ed inumana ragione aborrisce ed abomina in ogni suo fatto, e più ne' più illustri e più riguardevoli: e seguendo, non il commodo della utilità e dello appetito, perciocché questa è la ragione degli animali e delle fiere, ma osservando il convenevole della giustizia, che la legge è degli uomini, è divenuta pari e superiore a quelli più nominati e più lodati antichi. I quali, se ignoranti del verace cammino e fra le tenebre della loro cecità e del loro paganesimo, pure la luce della giustizia, quasi palpitando e carpone, seguirono, che si conviene ora di fare a noi illuminati da Dio stesso e per la sua divina mano guidati ed indirizzati?
[Paragrafo] III
Niuna utilità adunque puote essere tanto grande che la giustizia e la dirittura di Vostra Maestà debba torcere né piegar già mai. Ma, posto ancora quello che non è da credere né da consentire in alcun modo, cioè che i prencipi postergata la ragione vadano dietro alla cupidigia ed all'avarizia, ancora ciò presupposto, dico io che Vostra Maestà non deverebbe negar di conceder Piacenza al duca suo genero ed a' suoi nipoti, perciocché ella ritenendola perde e concedendola guadagna: ché, dove ella al presente ha Piacenza sola, averà allora Piacenza e Parma, ed oltre a questo, cessando le cause degli sdegni e de' sospetti fra Nostro Signore e Vostra Maestà, sarà parimente a favore ed a voglia di lei tutto lo Stato e tutte le forze di Santa Chiesa le quali ora mostrano di starsi sospese. E, quantunque io abbia ferma credenza che il muover guerra a Vostra Maestà ed opporsele sia non porgerle affanno né angoscia, ma recarle occassion di vittoria, perciocché contro al valore ed alla virtù vostra niuno schermo, per mio avviso, e niun contrasto è né buono né sicuro, fuori che cederle ed ubidirle, sì come io veggio che per isperienza hanno apparato di fare le maggiori e le miglior parti del mondo, non di meno questa novella briga potrebbe, non dico chiudere il passo, onde ella saglie alla sua divina gloria, ma il cammino allungarle. E, se lo spazio della vita nostra fosse pari a quello dell'altezza dell'animo vostro, poco sarebbe forse da prezzar questa tardanza; ma egli è brieve, e spesse volte anco si rompe a mezzo 'l corso e manca. Il ritenere adunque Piacenza per così fatto modo acquistata non vi è vantaggio ma danno, non solo perché ciò vi partorisce briga ed impaccio senza alcun frutto, i vostri pensieri dal primo loro sentiero, sì come io ho detto, torcendo, ma ancora perché ciascun prencipe per questo fatto, avvenga che giusto si possa credere, pure, perché egli è nuovo e la sua forma esteriore può parere a molti aspera e spaventevole, come quella che è fuori del costume di Vostra Maestà, prendono sospetto e guardia di lei e di domestichi le sono diventati salvatichi; e per questa cagione temendovi più che prima e meno che prima amandovi, dove soleano, addolciti dalla vostra benignità, disiderar la vostra felicità e la vostra essaltazione, ora da questo fatto, che in vista è spiacevole, inaspriti e, come ho detto, insalvatichiti, quantunque forse a torto, vorranno e procureranno il contrario. E né Vostra Maestà né alcun altro può vedere i futuri accidenti e varii casi e dubbi della fortuna; i quali potrebbon per mala ventura essere di sì fatta maniera che questa salvatichezza e questo mal volere de' prencipi arebbe forza e potere di nuocervi. Il che Dio cessi, come io spero che Sua Divina Maestà farà, mirando quanto ella vi ha sempre nella sua santissima grazia tenuto, sì come suo fedel campione per lei e ne' suoi servigi militante.
Assai chiaro è adunque Vostra Maestà ritener Piacenza con suo danno e con sua perdita, ed oltre a ciò con grave querimonia di molti e con molto sospetto generalmente di tutti. Veggiamo ora se il lasciarla le porge utile, o se le reca maggiore incommodo e disavantaggio. E certo, se ella dando quella città non la ritenesse, ed investendone altri non ne privilegiasse se medesima, forse potrebbe dire alcuno che lo spogliarsi di sì guernito e sì opportuno luogo non fosse utile né sicuro consiglio; ma ora, concedendo voi Piacenza al duca Ottavio vostro genero e vostro servidore ed a madama eccellentissima vostra figliuola ed a' due vostri elettissimi nipoti, voi non ve ne private, anzi la fate più vostra che ella al presente non è in mano ora di questo ora di quell'altro vostro ministro: i quali servono Vostra Maestà, sì come io credo, con molta fede, ma non di meno per loro volontà e tratti dalle loro speranze, e le sono del tutto stranieri, ed i loro figliuoli ed i loro commodi privati non dico amano più, ma certo a loro sta di più amarli che quelli di lei; là dove il duca Ottavio la serve e servirà perpetuamente, non solo con leanza incomparabile, come suo signore, ma ancora con somma affezione e con volonteroso cuore, come suo suocero e come avolo de' suoi dolcissimi figliuoli, ubidendola e riverendola sempre, non pur di suo volere né invitato dal guadagno solamente, ma eziandio constretto e sforzato dalla natura e dalla necessità. Conciossiaché egli niuna cosa abbia così sua né tanto propria che sia in parte alcuna divisa né disgiunta da voi (non la moglie, non i figliuoli, non le amicizie, non le speranze, non i pensieri, non la volontà istessa, essendo egli avvezzo poco meno che fin dalle fasce a non volere né disvolere, se non quanto è stato voglia e piacere di Vostra Maestà), in niuna maniera potrebbe dimenticar la sua usanza né altro costume apprendere; e, se egli pur si provasse di farlo, niuno troverebbe che gli credesse; e, se lo trovasse, in nessun modo potrebbe offendere Vostra Maestà che i suoi dolcissimi figliuoli e la sua carissima e nobilissima consorte non fossero di quelle offese medesime con voi insiememente trafitti. E più ancora sacra Maestà, ché egli ha, già è buon tempo, antiveduta la tempesta, nella quale egli di necessità dee cadere e la quale naturalmente gli soprastà: e non di meno niun altro rifugio ha procacciato a quelle onde ed a quei venti fuori che la grazia e l'amore di Vostra Maestà, né altrove ha porto ove ricoverarsi in cotanti anni apparecchiato che nella tutela che Vostra Maestà dimostrò già di prendere di lui; anzi ha egli ciascuna altra parte per rispetto di voi sospetta e nimica. Per la qual cosa ben dee Vostra Maestà avere fidanza in lui, poiché egli in voi solo e non in altro tutte le sue speranze ha poste e collocate: ma non di meno, quantunque assai noto sia a ciascuno che Vostra Maestà, sì come magnanima e di gran cuore, suole sicuramente fidarsi, ella può ancora sì fattamente essere assicurata del duca che niuna cagione aranno, eziandio i pusillanimi e paurosi, di sospicare che egli la inganni.
Voi avete nella vostra men lieta e possente fortuna ritenuto lo Stato di Melano tanti e tanti anni non avendo voi Piacenza: dovete voi temere, essendo tanto cresciuto, di non poterlo mantenere ora senza quella città? anzi pure con Piacenza insieme e con Parma? Le quali due città, essendo elle de' vostri nipoti, saranno vostre amendue senza alcuna vostra spesa e senza alcun vostro travaglio. Per la qual cosa non è da credere che Vostra Maestà prenda consiglio di, ritenendo Piacenza, perder Parma e tante altre terre, ed oltre a ciò quello che è di troppo maggior prezzo che due e che molte città, cioè la benivolenza che gli uomini generalmente vi portano. Perciocché niuna cosa ha tanto potere in accendere gli animi delle genti di vera carità ed infiammargli d'amore quanto le magnifiche opere, sì come per lo contrario le vili e pusillanime e distorte azioni i già caldi e ferventi intiepidiscono e raffreddano in un momento. Né creda Vostra Maestà che sia alcuno, che grande stupore abbia della vostra potenza o della vostra mirabile e divina fortuna: invidia e dolore ne hanno ben molti, forse in maggior dovizia che a voi bisogno non sarebbe: perocché tanta forza e tanta ventura genera e timore ed invidia eziandio ne' benivoli e negli amici, i quali temendo insieme odiano conciossiaché quelle cose, che spaventano, si inimicano ed al loro accrescimento ciascuno quanto può si oppone; ma la prodezza del cuore e la bontà dell'animo e le cose magnificamente fatte, sì come le vostre passate opere sono, commuovono con la loro bellezza e col loro splendore ancora gli avversarii e nimici ad amore ed a maraviglia, anzi a riverenza ed a venerazione.
E certo niuna grazia può l'uomo chiedere a Dio maggiore che di vivere questa vita in sì fatta maniera che egli si senta amare e commendare da ogni lato e da tutte le genti ad una voce; e massimamente se egli stesso non discorda poi dalla universale openione, anzi seco medesimo e con la sua conscienza si può senza alcuno rimordimento rallegrare e beato chiamare: felicità senza alcun fallo troppo maggiore che le corone ed i reami e gl'imperii, a' quali si perviene assai spesso con biasimevoli fatti e con danno e con ramarico de' vicini e de' lontani. Né a me può in alcun modo caper nell'animo che a coloro che si sentono così essere dagli altri uomini odiati ed abominati, come i nocivi e venenosi animali si temono e si schifano, possa pure un poco giovar delle loro ricchezze né della loro potenzia. Il che, senza alcun fallo, cioè di essere odiato e fuggito dagli uomini a guisa di serpe o di lupo, interviene di necessità a ciascuno che si volge ad usar la forza e la violenza fuori di ragione e di giustizia: perciocché quale animo potrebbe essere mai sì barbaro che amasse o lodasse quello antico Attila o alcun altro di simile condizione? o che tale appetisse di essere egli o i suoi discendenti quale colui fu? tutto che egli poco men che l'Africa e l'Europa signoreggiasse. Certo non Vostra Maestà, né alcun altro a lei somigliante. Perché abbiansi le loro soverchie forze ed i loro alti gradi coloro che possono sofferir di vivere a Dio in ira ed alla loro specie medesima in odio ed inabominazione.
Dal pensiero de' quali se io non fossi più che certo Vostra Maestà esser molto lontana, anzi molto contraria e del tutto inimica, poco senno mostrerei di avere sotto queste già bianche e canute chiome, essendo io tanto oltre scorso con le parole: perocché io, pregare e supplicare volendovi, verrei col mio ragionamento ad avervi offeso e turbato: il che né a me si conviene di fare in alcun tempo, né la presente mia intenzione sostiene che io il faccia in alcun modo. Qual cagione adunque mi ha mosso a fare menzione nelle mie parole della miseria degl'iniqui e rapaci prencipi? Niuna, sacra Maestà, se non questa: a ciò che, ponendo io dinanzi agli occhi vostri le altrui brutture, voi meglio e più chiaramente conosciate la vostra bellezza e la vostra bontà, e, di lei e di voi medesimo rallegrandovi, e felice e fortunato tenendovi, procuriate di così mondo e di così splendido conservarvi; e vi rivolgiate per l'animo che, quantunque le vostre vittorie ed i vostri felici avvenimenti siano stati molti e molto maravigliosi in ogni tempo, non di meno più beata e più fortunata si conobbe essere Vostra Maestà in una sola avversità che ella ebbe in Algeri che ella non si era dimostrata in tutte le sue maggiori e più chiare felicità trapassate. Perocché chi fu in quel tempo che del vostro fortunoso caso amaramente non si dolesse? o chi della vostra vita, come di molto amata e molto apprezzata cosa, non istette pensoso e sollecito? o chi non porse a Dio con pietoso cuore ardentissimi prieghi per la vostra salute? Certo nessuno che animo e costume umano avesse. Che parlo io degli uomini? Questa terra, sacra Maestà, e questi liti parea che avessino vaghezza e disiderio di farvisi allo 'ncontro, ed il vostro travagliato e combattuto naviglio soccorrere, e ne' lor seni e ne' lor porti abbracciarlo. Né i vostri nimici medesimi erano arditi di rallegrarsi della vostra disavventura, né il vostro pericolo aver caro. Del quale poi che la felicissima novella venne che Vostra Maestà era fuori, niuna allegrezza fu mai sì grande né sì conforme ugualmente in ciascuno, come quella che tutti i buoni insiememente sentirono allora. Sì fatto privilegio hanno, sacra Maestà, le giuste opere e magnanime che esse sono eziandio nelle avversità felici e nelle perdite utili e ne' dolori liete e contente. I quali effetti, se noi vogliamo risguardare il vero, non si sono così pienamente veduti ora in questo novello acquisto che voi fatto avete di Piacenza come in quella perdita d'Algeri si sentirono; anzi pare che una cotale taciturnità, che è stata nelle genti dopo questo fatto, più tosto inchini a biasimar di ciò i vostri ministri che a commendarneli.
Il che a ciò che voi più chiaramente conosciate, io priego Vostra Maestà per quel puro affetto che a prendere la presente fatica m'ha mosso e se ella alcuna considerazione merita da voi che non abbiate a schifo di ricevere nell'animo per brieve spazio una poco piacevole finzione e che voi degniate d'imaginarvi che tutte le città, che voi ora legitimamente possedete, siano cadute sotto la vostra giurisdizione non con giusto titolo né per eredità né per successione o con ragionevole guerra e reale, ma che in ciascuna di esse si siano commossi in diversi tempi alcuni, i quali il loro signore, congiunto e parente di Vostra Maestà, insidiosamente ucciso avendo, la lor patria sforzata ed oppressa a voi con scelerata mano e sanguinosa abbiano pòrta ed assignata, e voi come vostra ritenuta ed usata l'abbiate: tal che tutto lo 'mperio ed i reami e tutti gli Stati che voi avete, ad uno ad uno, così in Ispagna come in Italia ed in Fiandra e ne la Magna, siano divenuti vostri in quella guisa, nella quale costoro vi hanno acquistata Piacenza, contaminati di fraude e di violenza, e del puzzo de' morti corpi de' loro signori fetidi, e nel sangue tinti e bruttati e bagnati, e di strida e di ramarico e di duolo colmi e ripieni. Ed in questa imaginazione stando, consideri Vostra Maestà come ella, tale essendo, dispiacerebbe a se stessa e ad altrui, e più a Dio. Dinanzi al severo ed infallibil giudicio del quale, per molto che altri tardi, tosto debbiamo in ogni modo venir tutti, non per interposta persona né con le compagnie né con gli esserciti, ma soli ed ignudi e per noi stessi, non meno i re e gli imperadori che alcun altro quantunque idiota e privato. E certo misero e dolente colui che a sì fatto tribunale la sua conscienza torbida e maculata conduce!
Io dico adunque, liberando Vostra Maestà da questa falsa e spiacevole imaginazione, che quello che essendo in tutti gli Stati, che voi possedete, attristerebbe voi, e le genti chiamerebbe al vostro odio ed al vostro biasimo, e commoverebbe la Divina Maestà ad ira ed a vendetta contra di voi, non può essere eziandio in una sola città senza rimordimento della vostra conscienza né senza riprensione degli uomini né senza offesa della divina severità.
[Paragrafo] IV
Per la qual cosa, io che sono uno fra molti, anzi sono uno fra la innumerabil turba che levai al miracolo della vostra virtù, è gran tempo, gli occhi, supplicemente la priego che ella non permetta che il suo nome, per la cui luce il nostro secolo è fin qui stato chiarissimo e luminoso, possa ora essere offuscato di alcuna ruggine; anzi lo purghi e lo rischiari, e più bello e più maraviglioso e più sereno lo renda, e seco medesima e con gli uomini e con Dio si riconcilii, ed imponga oggimai silenzio a quella maligna e bugiarda voce e sfacciata, la quale è ardita di dire che Vostra Maestà fu consapevole della congiura contra l'avolo de' vostri nipoti fatta; e rassereni la mente de' buoni che ciò, già è gran tempo, da voi sospesa attendono e dell'indugio si gravano, Piacenza al vostro umilissimo figliuolo ed ubidientissimo genero e fidelissimo servidore assignando: acciocché la vostra fama, lunghissimo spazio vivendo, e canuta e veneranda fatta, possa raccontare alle genti che verranno come l'ardire ed il valore e la scienzia della guerra e la prodezza e la maestria delle armi fu in voi virtù e magnanimità, e non impeto né avarizia, e che quella parte dell'animo, che Dio agli uomini diede robusta e spinosa e feroce e guerrera, con la ragione e con la umanità in voi componendosi e mescolandosi, quasi salvatico albero co' rami delle domestiche piante innestato, divenne dolce e mansueta in tanto che voi, la vostra fortezza in niuna parte allentando né minuendo, di benigno ingegno foste e pietoso e pieghevole. La qual loda di pietà tanto è maggiore ne' virili animi ed altieri, e fra le armi e nelle battaglie, quanto ella più rade volte vi s'è veduta, e quanto più malagevole è che la temperanza e la mansuetudine siano congiunte con la licenzia e con la potenzia.
Vuole adunque Vostra Maestà dal nobilissimo stuolo delle altre sue magnifiche laudi scompagnare questa difficile e rara virtù? E, se ella non vuole che la sua gloria scemi ed impoverisca di tanto, dove potrà ella mai impiegar la sua misericordia con maggior commendazione degli uomini o con più merito verso Dio che nel duca Ottavio, il quale per la disposizion delle leggi è vostro figliuolo, e per la vostra vostro genero, e per la sua vostro servidore? Senza che, quando bene egli di niun parentado vi fosse congiunto, ad ogni modo il suo molto valore ed i suoi dolci costumi e la sua fiorita età doverebbon poter indurre a compassione di sé non solo gli strani, ma gl'inimici e le fiere salvatiche istesse. E voi, la cui usanza è stata fino a qui di rendere gli Stati non solo a' prencipi strani, ma eziandio a' re barbari e saracini, sostenete che egli vada disperso e sbandito e vagabondo, e comportate che quella vita, la quale pur dianzi ne' suoi teneri anni si pose, combattendo per voi, in tanti pericoli, ora per voi medesimo tapinando sia cotanto misera ed infelice?
O gloriose, o ben nate e bene avventurose anime, che nella pericolosa ed aspra guerra de la Magna seguiste il duca e di sua milizia foste, e le quali per la gloria e per la salute di Cesare i corpi vostri abbandonando ed alla tedesca fierezza, del proprio sangue e di quel di lei tinti lasciandoli, dalle fatiche e dalle miserie del mondo vi dipartiste, vedete voi ora in che dolente stato il vostro signore è posto? Io son certo che sì: e, come quelle che lo amaste da lui foste sommamente amate, tengo fermo che misericordia e dolore de' suoi duri ed indegni affanni sentite.
Ecco, i vostri soldati, sacra Maestà, e la vostra fortissima milizia fino dal cielo vi mostra le piaghe che ella per voi ricevette, e vi priega ora che 'l vostro grave sdegno, per l'altrui forse non vera colpa conceputo, per la costui innocente gioventù s'ammollisca e che voi non al duca, ma a' vostri nipoti, non rendiate come loro, ma doniate come vostra quella città, la qual voi possedete ora, se non con biasimo, almeno senza commendazione. E potrà forse alcuno fare a credere alle età che verranno dopo noi che l'altiero animo vostro, avvezzo ad assalire con generosa forza ed a guisa di nobile uccello a viva preda ammaestrato, in questo atto dichini ad ignobilità, e quasi di morto animale si pasca, quella città, non con la vostra virtù né con le vostre forze ma con gli altrui inganni e con le altrui crudeltà acquistata, ritenendo.
Di ciò vi priegano similmente le misere contrade d'Italia ed i vostri ubidientissimi popoli, e gli altri e le chiese ed i sacri luoghi, e le religiose vergini e gl'innocenti fanciulli e le timide e spaventate madri di questa nobile provincia piangendo; ed a man giunte con la mia lingua vi chieggon mercé, che voi procuriate, per Dio, che la crudele preterita fiamma, per la quale ella è poco meno che incenerita e distrutta, e la quale con tanto affanno di Vostra Maestà sì difficilmente s'estinse, non sia raccesa ora, e non arda e non divori le sue non bene ancora ristorate né rinvigorite membra. Di ciò pietosamente e con le mani in croce vi priega madama illustrissima vostra umile serva e figliuola, la quale voi donaste ad Italia, e con sì nobile presente e magnifico degnaste farne partecipi del vostro chiarissimo sangue, acciocché ella di sì prezioso legnaggio co' suoi parti questa gloriosa terra arricchisse. E noi lei, sì come nobilissima pianta peregrina nel nostro terreno translata ed allignata e la vostra divina stirpe fruttificante, lietissimi ricevemmo; e quanto la nostra umiltà fare ha potuto, l'abbiamo onorata e riverita. Non vogliate ora voi ritòrci sì pregiato dono; e, se la sua benigna stella le diede che ella nascesse figliuola d'imperadore ed il suo valore ed i suoi regali costumi la fecero degna figliuola di Carlo quinto imperadore, non vogliate far voi che tanta felicità e bontà siano ora in doglioso stato, quello che il cielo le concedette e quello che la sua virtù le aggiunse togliendole. Assai la fece aspra fortuna e crudele delle sue prime nozze sconsolata e dolente; non la faccia ora il suo generosissimo padre delle seconde misera e scontenta. Ella non puote in alcun modo essere infelice essendo vostra figliuola; ma come può ella senza mortal dolore veder colui, cui ella sì affettuosamente come suo e come da voi datole ama, caduto in disgrazia di Vostra Maestà vivere in doglia ed in essilio? Ma, se ella pure diponesse l'animo di ardente mogliera, come può ella disporre quello di tenera madre? ed il suo doppio parto sopra ogni creata cosa vaghissimo e dilicato ed amabile non amare tenerissimamente? Il quale certo di nulla v'offese già mai: o, se l'altrui nome all'uno de' nobili gemelli nuoce cotanto, giovi almeno all'altro in parte il vostro. Questi le tenere braccia ed innocenti distende verso Vostra Maestà timido e lagrimoso, e con la lingua ancora non ferma mercé le chiede: per ciò che le prime novelle, che il suo puerile animo ha potuto per le orecchie ricevere, sono state morte e sangue ed essilio; ed i primi vestimenti, co' quali egli ha dopo le fasce ricoperto le sue picciole membra, sono stati bruni e di duolo; e le feste e le carezze, che egli ha primieramente dalla sconsolata madre ricevute, sono state lagrime e singhiozzi e pietoso pianto e dirotto Questi adunque al suo avolo chiede misericordia e mercé; ed Italia al suo signore chiama pace e quiete; e l'afflitta Cristianità di riposo e di concordia il suo magnanimo prencipe priega e grava. E io, da celato divino spirito commosso, oltra quello ch'al mio stato si converrebbe fatto ardito e presontuoso, la sua antica magnanimità a Carlo quinto richieggo, e la sua carità usata gli addimando. La divina bontà guardò il vostro vittorioso essercito da quelle mortali seti affricane e dievvi che voi conquistaste quel regno in sì pochi giorni a ciò che voi, di tanto dono conoscente, la sua santa fede poteste difendere ed ampliare e non perché voi la misera Cristianità tutta piagata e monca e sanguinosa, quando ella le sue ferite sanava ed i suoi deboli spiriti rafforzava, a nuove contese ed a nuove battaglie suscitaste per aggiungere una sola città alla vostra potenzia. Questa medesima divina bontà rendé tiepide e serene le pruine ed il verno de la Magna, ed i venti e le tempeste del Settentrione acquetò, per salvare il suo eletto e diletto campione; e diedegli tanta e sì alta vittoria, fuori d'ogni umana credenza non a fine che egli poco appresso, per avanzarsi, imprendesse briga con Santa Chiesa, ma acciocché egli la ubidisse e le sparse e divise membra di lei raccozzasse ed unisse e col capo suo le congiungesse. Sì come Vostra Maestà farà di certo, perciocché cotanta virtù, quanta in voi risplende, non puote in alcun modo né con alcuna onda di utilità estinguersi, né pure un poco intiepidirsi già mai.
Piaccia a Colui, al quale, essendo egli somma bontà, ogni ben piace, che queste mie parole, più alla buona intenzione che all'umil fortuna mia convenevoli, nel vostro animo ricevute, quello effetto produchino, che al suo santissimo nome sia di laude e di gloria, ed a Vostra Maestà di salute e di consolazione.
© Silvia Licciardello. Riproduzione riservata.