Galileo Galilei

Tempo di lettura: 10min 53s

Galileo Galilei nacque a Pisa nel 1564. Il padre Vincenzo era un esponente di rilievo della cultura fiorentina, soprattutto per la sua attività teorica e compositiva in ambito musicale. La prima formazione di Galilei si svolse a Firenze, dove la famiglia si era trasferita, e si caratterizzò per la vastità degli stimoli e degli interessi culturali (musicali, letterari, filosofici e scientifici). Nel 1581 Galileo ritornò a Pisa per intraprendere gli studi di medicina presso l’università. Fu tuttavia l’insegnamento di matematica e fisica, impartito da Ostilio Ricci, a suscitare nel giovane studente la volontà di approfondire i testi e di verificare con ricerche sperimentali le teorie di Archimede. Dopo quattro anni, Galilei dovette rientrare a Firenze per le disagiate condizioni familiari, senza essersi laureato ma avendo ormai chiarito la sua vocazione scientifica. A un’intensa attività di studio, affiancò l’insegnamento privato, ma solo un incarico ufficiale come docente poteva garantirgli una maggiore tranquillità economica. Accettò, dunque, la cattedra di matematica presso lo Studio di Pisa, e nel triennio in cui la resse (1589-1592) compì studi che gli fecero intuire la falsità del sistema geocentrico risalente ad Aristotele e Tolomeo.

Alla fine del 1592 Galilei ottenne il passaggio all’università di Padova, dipendente dalla Repubblica di Venezia. I diciotto anni trascorsi a Padova rappresentarono la fase più fertile e più serena della vita di Galilei. L’ambiente veneto presentava indubbi vantaggi: più che le specifiche caratteristiche dell’università padovana, legata a un aristotelismo che tendeva a chiudersi in un atteggiamento dogmatico, contava per Galilei la presenza di un’aristocrazia colta, attenta interlocutrice del dibattito scientifico, e l’interesse del governo della Serenissima a incentivare studi che si potessero tradurre in innovazioni tecnologiche in ambito navale, militare e agricolo. Tra i più importanti frutti di questa correlazione fra la dimensione teorica della ricerca scientifica e le applicazioni pratiche fu la costruzione del cannocchiale, uno strumento già realizzato in Olanda e riprodotto in base a disegni e resoconti di viaggiatori, ma che Galilei perfezionò in modo che fosse utilizzabile sia sul piano operativo, da parte della Repubblica (a cui fu donato), sia su quello della ricerca scientifica. Mentre i veneziani osservavano stupefatti, dal campanile di San Marco, le navi in lontananza enormemente ingrandite, Galilei, rivolgendo il cannocchiale al cielo, poté distinguere le montuosità della Luna – che veniva così ad assumere un aspetto simile a quello del paesaggio terrestre – e scoprire quattro satelliti di Giove (che chiamò «pianeti medicei»). Queste osservazioni astronomiche stanno alla base del Sidereus nuncius (“Messaggero celeste”, 1610), l’opera con cui Galilei si impose all’attenzione dell’intera comunità scientifica europea e intervenne scopertamente nel campo della fisica celeste. Nello stesso anno lo scienziato, sull’onda della fama conseguita, assunse a Firenze l’incarico di «matematico primario dello Studio di Pisa e filosofo del Granduca», che lo liberava da obblighi di insegnamento e gli consentiva di proseguire le proprie ricerche. I risultati conseguiti rafforzarono sempre più Galilei nella convinzione della correttezza del modello copernicano rispetto a quello tolemaico.

Le resistenze che la Chiesa mostrava nei confronti del copernicanesimo, ritenuto in contrasto con alcuni passi della Bibbia, lo spinsero a intraprendere una sistematica azione di convincimento rivolta agli ambienti culturali legati al mondo ecclesiastico, perché riconoscessero l’autonomia della scienza dalla fede. Tale impegno, espresso nelle cosiddette Lettere copernicane (1613-1615), non fu però sufficiente a smuovere la Chiesa dalle sue posizioni, e nel 1616 il cardinale Bellarmino ingiunse a Galilei di non sostenere teorie «stolte, eretiche ed erronee». Tra il 1618 e il 1623, Galilei si trovò a polemizzare aspramente con Orazio Grassi, autorevole esponente gesuita, circa la natura delle comete. Culmine della disputa fu Il saggiatore, pubblicato da Galilei nel 1623 dopo l’elezione al soglio pontificio, con il nome di Urbano VIII, di Maffeo Barberini, un cardinale fiorentino legato da rapporti di stima con lo scienziato. Confidando sull’appoggio del nuovo papa e sottovalutando la potenza dei suoi avversari (soprattutto gli ordini domenicano e gesuita), Galilei mise mano a un progetto volto a fare definitiva chiarezza nel dibattito fra i due modelli cosmologici, quello tolemaico e quello copernicano. Nacque così il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, pubblicato nel 1632 dopo un intenso lavoro diplomatico con le autorità ecclesiastiche. Nonostante le numerose cautele di carattere teorico, l’opera risultava sbilanciata a favore del copernicanesimo e venne fatta oggetto di violenti attacchi. Nel luglio dello stesso anno l’opera fu sequestrata e Galilei dovette comparire, in stato di detenzione, di fronte al Tribunale dell’Inquisizione, dove venne istruito un processo per eresia.

Tutta l’attività di Galilei scienziato rientra nel periodo della cosiddetta «rivoluzione scientifica» e si inserisce in un processo (già da tempo avviato) di contestazione dei fondamenti della fisica aristotelica, ancora dominante negli ambienti universitari europei e accreditata dalla Chiesa cattolica quale teoria ortodossa del mondo naturale. I pilastri di questa concezione risalivano, appunto, ad Aristotele (secolo IV a.C.), le cui teorie astronomiche erano state riprese e codificate in termini matematici da Tolomeo (secolo II d.C.). Il sistema aristotelico-tolemaico, in primo luogo, concepiva l’universo come una totalità finita, avente un centro, la Terra, ben definito e immobile. Sosteneva, in secondo luogo, la netta separazione fra mondo celeste e mondo terrestre (o «sublunare») considerati diversi per composizione materiale – il primo fatto di etere, sostanza perfetta, incorruttibile e trasparente, il secondo dai quattro tradizionali elementi, terra, acqua, aria e fuoco – e per le caratteristiche dei movimenti propri di ognuno, circolari uniformi per il primo, rettilinei per il secondo. Infine, nell’ambito della fisica terrestre, presupponeva che tutti i corpi in movimento tendessero a riacquistare lo stato di quiete per una inclinazione «naturale» insita in loro stessi e non per l’azione frenante di forze esterne. Le contraddizioni fra questo modello e i dati dell’osservazione erano emerse fin dall’antichità, ma non avevano indotto ad abbandonare la teoria, bensì a sempre più raffinati e complessi aggiustamenti della stessa. Bisognò attendere la pubblicazione, nel 1543, dell’opera di Copernico De revolutionibus orbium coelestium, perché un punto fondamentale del modello aristotelico-tolemaico, la centralità della Terra, venisse negato, anche se ci fu chi volle presentare la teoria copernicana come una pura ipotesi matematica e non come la descrizione dell’effettivo funzionamento del meccanismo celeste. Galileo stesso, nel Proemio al Dialogo sopra i due massimi sistemi, ripete questa tesi in funzione prudenziale.

Una nuova strada era stata comunque tracciata: l’appassionata rivendicazione di Giordano Bruno della natura infinita dell’universo e l’affermazione dell’astronomo tedesco Johannes Keplero dell’andamento ellittico e non uniforme dei moti dei pianeti attorno al Sole (teoria, peraltro, che Galilei non condivideva) approfondirono ulteriormente il solco tra la fisica aristotelica e la «nuova» fisica. Nel 1610 Galilei, annunciando nel Sidereus nuncius le scoperte compiute con il telescopio, riteneva di poter offrire un decisivo supporto alla teoria copernicana, così da elevarla alla dignità di un’effettiva descrizione del cosmo, e non soltanto di un’ingegnosa ipotesi matematica. La certezza data dall’osservazione diretta dei pianeti scardinava l’idea della eterogeneità tra mondo terrestre e mondo celeste (la conformazione della Luna, infatti, appariva non dissimile da quella Terra) e faceva crollare la convinzione che la Terra fosse il centro immobile di tutti i movimenti cosmici: se Giove era il centro di rotazione di altri corpi celesti ed era anch’esso in movimento, lo stesso poteva valere per la Terra, e le dimensioni dell’universo e le distanze astrali andavano di conseguenza drasticamente ripensate. Grazie a queste scoperte il copernicanesimo costituì per Galileo una certezza. Egli si impegnò altrettanto sul problema dei moti terrestri: con i suoi ingegnosi esperimenti e le sue eleganti dimostrazioni, fornì un nuovo solido statuto alla meccanica e avviò la fisica moderna su binari ormai chiaramente delineati. L’ambito della fisica terrestre, tuttavia, restava un campo per specialisti, mentre le questioni legate all’affermazione del copernicanesimo coinvolgevano aspetti culturali e religiosi della massima importanza. Com’è noto, le resistenze alla diffusione di questa teoria provenivano soprattutto dagli ambienti ecclesiastici, per diversi ordini di ragioni. In primo luogo, la fisica e l’intera filosofia aristotelica erano divenute, dopo la grande sintesi operata da Tommaso d’Aquino nel secolo XIII, i fondamenti dell’accordo tra fede e ragione attorno ai quali si era imperniato gran parte del pensiero medievale. I termini di questo accordo erano stati ribaditi, a metà del secolo XVI, dal Concilio di Trento. Inoltre, l’idea che la Terra si muovesse attorno al Sole veniva considerata in contraddizione con alcune pagine della Sacra Bibbia. La questione andava ben oltre i confini della filologia biblica, perché si ricollegava all’aspra lotta dei teologi cattolici contro il principio luterano del libero esame del testo sacro, cioè contro l’affermazione che ogni fedele è chiamato a interpretare liberamente la parola di Dio. Molti ambienti ecclesiastici, in altre parole, temevano che la rivendicazione galileiana dell’autonomia della scienza dalle verità rivelate e dai testi sacri potesse preludere a una critica globale del magistero della Chiesa.

Galilei ribadì più volte la sua sincera convinzione della indiscutibilità dell’insegnamento morale della Chiesa, ma senza esito. Del resto, la sua generosa battaglia contro le resistenze al copernicanesimo era destinata in partenza alla sconfitta: proprio per la vastità delle implicazioni sottese, infatti, era impossibile che la Chiesa accettasse la proposta galileiana di distinguere nella Bibbia le affermazioni relative alla fede e alla morale – da non mettere in discussione – da quelle riguardanti il funzionamento del mondo fisico, da sottoporre al vaglio della ragione e delle conoscenze acquisite con l’osservazione scientifica. Solo in seguito al processo del 1633 lo scienziato pisano si arrenderà all’evidenza che i tempi non erano ancora maturi perché la Chiesa accogliesse il principio dell’autonomia reciproca tra fede e scienza. Il tratto fondamentale del metodo scientifico galileiano è la traduzione sistematica dei dati osservativi in un rigoroso linguaggio matematico. Si tratta di quello che molti studiosi indicano come «platonismo» o «pitagorismo» galileiano, cioè la convinzione che la matematica non costituisca solo un linguaggio prezioso, per sintesi e rigore, nel rendere le caratteristiche costanti del mondo naturale, ma esprima la struttura profonda, lo scheletro essenziale della realtà. A differenza dei primi esponenti della rivoluzione scientifica (ad esempio l’inglese Francis Bacon), Galilei è ormai pienamente consapevole che il metodo della nuova scienza si fonda sul linguaggio matematico. I numeri e le figure geometriche costituiscono l’alfabeto di base di quello che Galilei stesso definisce il «gran libro della natura», che, nell’indagine delle sue leggi, non ammette il ricorso alla pretesa autorità di altri libri, compresi quelli sacri.

Va poi sottolineato il fatto che l’opera galileiana si caratterizza per una straordinaria capacità di coniugare rigore espositivo ed efficacia comunicativa. Alternando le lingue – il latino dei trattati destinati al mondo accademico e il volgare dei dibattiti, delle polemiche e dei testi destinati a un più ampio pubblico colto – nonché le forme letterarie (trattatello, epistola, dialogo), Galilei testimonia la volontà di diffondere il nuovo verbo scientifico in modo sistematico e la capacità di sintonizzarsi con i linguaggi, le abitudini culturali e gli stili mentali dei suoi interlocutori. Pur consapevole, come afferma nel Saggiatore, della differenza tra la lingua della scienza e gli stilemi retorici, Galilei dimostra di sapersi servire di entrambi, riuscendo in molti casi a forgiarsi (soprattutto nell’ambito del volgare) uno strumento originale rispetto ai modelli che la tradizione culturale italiana gli offriva. La nuova prosa scientifica che Galilei lascia – non ultima fra le sue preziose eredità – potrà affermarsi solo in modo rapsodico e tra molte difficoltà nel corso dei secoli XVII e XVIII, ma rimarrà comunque un modello a cui gli scienziati e i letterati non mancheranno di guardare.

 


1téchne: tecnica.

© Silvia Licciardello. Riproduzione riservata.

Opere in catalogo

  • Bilancetta (La)

  • Capitolo in biasimo della toga

  • Consideratione Astronomica circa la Stella nova dell'anno 1604 (Con la collaborazione di B. Capra)

  • Dialogo sopra i due massimi sistemi

  • L'enimma, o sonetto enigmatico

  • Lettere

  • Lezioni di G.G. intorno la figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante Alighieri

  • Le mecaniche

  • Mentre ridea nel tremulo e vivace

  • Mentre spiegava al secolo vetusto

  • Operazioni del compasso geometrico e militare (Le)

  • Saggiatore (Il)

  • Scorgi i tormenti miei, se gli occhi volti

  • Sonetto per una cena data da alcuni Lettori dell'Università di Pisa a certi scolari loro amici